Di Maurizio Franzini
E’ oramai ben noto che la disuguaglianza economica (quella nei redditi e quella nella ricchezza) da diversi anni è molto alta in gran parte dei paesi occidentali e lo è, in modo particolare, nel nostro paese. Dovendo parlare di disuguaglianze non lo farò, dunque, per ricordare o illustrare questo stato di cose e le sue cause. La questione che vorrei affrontare brevemente è, invece, un’altra e cioè: rispetto alle disuguaglianze economiche, e in particolare quelle relative ai redditi, quale obiettivo dovrebbe darsi la sinistra?
Credo si possa dire che da tempo la sinistra è orfana di un’idea precisa al riguardo; al massimo, esibisce indignazione per le disuguaglianze correnti o, forse soltanto per le più gravi manifestazioni della povertà, che non è, naturalmente, la stessa cosa. Ma l’indignazione non basta e un progetto chiaro non si intravede.
Semplificando, direi che con la caduta del muro di Berlino è caduta anche la prospettiva della “perfetta” uguaglianza nei risultati e nei redditi che, in qualche modo (non necessariamente virtuoso) aveva fatto da segreta guida alla sinistra fino a quel momento. Il vuoto che si è così creato non mi pare sia stato colmato. Il tentativo più ambizioso è stato, forse, quello di Blair e del New Labour di spostare il fuoco dall’eguaglianza dei risultati all’eguaglianza delle opportunità e alla connessa mobilità sociale tra generazioni.
Si tratta di un tentativo che non ha dato grandi risultati, né sul piano delle idee né in termini pratici. Tuttavia la questione della mobilità sociale è molto importante e credo possa rappresentare un buon punto di partenza per definire gli obiettivi da raggiungere in tema di disuguaglianza. Quello che cercherò di sostenere è che ciò avverrà se si supereranno due seri limiti dell’approccio del New Labour, e non solo del New Labour: il primo è una più chiara definizione della mobilità sociale e economica da una generazione all’altra; il secondo, che è anche il principale, riguarda invece la necessità di prestare attenzione ai rapporti, che invece esistono tra mobilità, da un lato, e disuguaglianza nei redditi, dall’altro.
Nella concezione di Blair la mobilità sociale era realizzabile del tutto indipendentemente dalla disuguaglianza corrente, senza intervenire, cioè, su quest’ultima. I dati, come dirò, non danno alcun conforto a una simile tesi cosicché si può pensare che l’indipendenza tra i due fenomeni fosse, soprattutto, un desiderio del New Labour che, se realizzato, avrebbe permesso di muovere verso una società giusta, perché socialmente mobile, senza dover intervenire sulle disuguaglianze correnti – dunque, senza creare troppo “disturbo”.
Proverò a illustrare brevemente, e del tutto non esaurientemente, questi due punti e le conseguenze che, a mio parere, ne scaturiscono.
I sociologi distinguono la mobilità assoluta da quella relativa e utilizzano come criterio di valutazione lo status occupazionale di genitori e figli. La mobilità assoluta è alta quando la quota di figli che ricoprono lo stesso status occupazione dei genitori è bassa. Se, più in particolare, molti si dirigono verso classi considerate migliori si potrà parlare di elevata mobilità ascendente, altrimenti la mobilità sarà discendente o laterale, cioè, in quest’ultimo caso, verso status occupazionali considerati gerarchicamente equivalenti a quelli dei propri genitori, anche se diversi.
Se ci riferiamo ai redditi, anziché agli statu occupazionali, si potrà dire che vi è mobilità assoluta ascendente quando in media il reddito dei figli (a carriera assestata) è più elevato di quello dei padri. Si noti che qui i redditi a cui si fa riferimento sono quelli da lavoro, non quelli complessivi che includono anche i redditi da capitale.
La mobilità relativa richiede, invece, che lo status occupazionale dei figli sia indipendente da quello dei genitori; non dovrebbe, cioè, esservi correlazione tra tra lo status di origine e quello di destinazione. In termini di reddito la condizione richiede che il reddito dei figli non sia correlato a quello dei padri e, più precisamente, che la posizione che i figli occupano nella graduatoria dei redditi sia indipendente da quella che occupavano i rispettivi genitori. In particolare, ricchi di oggi non dovrebbero essere, sistematicamente, i figli dei ricchi di ieri.
Si tratta di nozioni diverse, potendo aversi mobilità assoluta ascendente (i figli stanno meglio dei padri) senza alcuna mobilità relativa (la posizione dei figli è la stessa dei padri). In una società che cresca ma sia “ingessata” nelle posizioni economiche e sociali si avrà mobilità assoluta ascendente ma non mobilità relativa.
La mia impressione è che il New Labour avesse come obiettivo la mobilità assoluta piuttosto che quella relativa, cioè un obiettivo raggiungibile senza dover intervenire sulle disuguaglianze presenti e future. La mobilità relativa è ben più impegnativa ed è, io credo, più importante della mobilità assoluta. Quando si uscì dall’ancien règime furono non pochi i maitre a penser che salutarono con entusiasmo questo avvenimento non perché si attendevano dal capitalismo e dai mercati una impetuosa crescita economica ma perché ritenevano che sarebbe finita l’epoca del vantaggio inaccettabile connesso alle origini familiari. Dunque, essi confidavano nella mobilità relativa o, come si potrebbe dire usando nozioni collegate ma non coincidenti, in una bassa trasmissione intergenerazionale dei redditi e in una compiuta eguaglianza delle opportunità. Qui riposava, almeno ai loro occhi, una buona parte della legittimazione dei mercati e del nuovo sistema economico.
Se, dunque, la mobilità relativa è importante ed è un obiettivo che, più di quanto sia avvenuto in passato, la sinistra dovrebbe fare proprio è particolarmente interessante chiedersi qual sia la situazione della mobilità relativa nei paesi occidentali e, in particolare, nel nostro. I dati, oggi finalmente disponibili, permettono di tracciare un quadro attendibile del fenomeno per un buon numero di paesi e consentono di farlo anche rispetto al reddito (che a noi interessa di più) e non soltanto rispetto agli status occupazionali. L’indicatore utilizzato al riguardo è il coefficiente b o coefficiente di trasmissione intergenerazionale dei redditi. Se questo coefficiente è positivo, la posizione che occupano i figli nella graduatoria della loro generazione è, in media, la stessa di quella che occupavano i loro genitori (vi è, cioè, trasmissione intergenerazionale); inoltre, più il suo valore si avvicina a 1 più le differenze di reddito tra figli replicano quelle che c’erano tra i padri.
In tutti i paesi per i quali sono disponibili dati, la trasmissione intergenerazionale dei redditi è presente. Tuttavia, le differenze tra paesi sono rilevanti: il coefficiente è minimo in Danimarca (inferiore al 20%) e massimo, tra i paesi avanzati, in Italia e Stati Uniti (intorno al 50%). Valori elevati si hanno anche Gran Bretagna e Francia.
L’Italia è, dunque, vicina agli Stati Uniti dove, in base a questi dati, la trasmissione intergenerazionale è bassa e, dunque, le possibilità di successo economico sembrano dipendere molto dalla famiglia di origine. Tutto questo contrasta, naturalmente, con l’idea che gli Stati Uniti siano la terra dell’American Dream, come si è già ricordato.
Dunque, le origini familiari contano soprattutto in Italia e negli Stati Uniti (con buona pace dell’American Dream) e contano, come ho già sottolineato, rispetto al reddito da lavoro dei figli, non rispetto al loro reddito complessivo che risente anche dei lasciti ereditari e, dunque, ha certamente un più forte legame con il reddito dei genitori.
La speranza che molti hanno nutrito di un allontanamento definitivo dall’ancien règime sembra essere andata, almeno, in parte delusa. E questa dovrebbe essere una notizia degna di massima attenzione per la sinistra. Accrescere la mobilità sociale relativa e ridurre la trasmissione intergenerazionale di vantaggi e svantaggi economici potrebbe essere un suo qualificante obiettivo.
Per meglio definire questo obiettivo e, soprattutto, per capire quali rapporti esso abbia con la disuguaglianza economica corrente (che è il secondo dei punti che mi sono ripromesso di trattare) è necessario un supplemento di analisi. Inizio con altri dati, che sono quelli che configurano una relazione oramai nota come curva del Grande Gatsby. Si tratta di questo: laddove la disuguaglianza corrente nei redditi (misurata dall’indice di Gini) è più elevata, risulta tendenzialmente più elevata anche l’elasticità intergenerazionale del reddito (misurata dal coefficiente b). Ad esempio, in Italia e negli Stati Uniti questi fenomeni sono entrambi molto intensi; mentre nei paesi nord-europei accade l’opposto.
Questa correlazione richiede una spiegazione che definisca anche gli eventuali nessi di causalità. Essa, in ogni caso, sembra di per sé sufficiente a mettere in crisi l’assunto, forse implicito, nell’approccio del New Labour, e non solo del New Labour, secondo il quale si potrebbe raggiungere l’obiettivo della elevata mobilità indipendentemente dalla situazione delle disuguaglianze correnti.
La spiegazione prevalente di questa correlazione, tra gli economisti, ha al proprio centro il capitale umano, che di norma viene misurato con gli anni di istruzione o con il titolo di studio. Il ragionamento è semplice e si compone di due ipotesi: a) i ricchi assicurano ai propri figli un’istruzione più elevata; b)l’istruzione più elevata permette ai figli dei ricchi di ottenere redditi più alti nel mercato del lavoro . Di conseguenza, le disuguaglianze di reddito che ci sono tra i genitori tenderanno a trasmettersi tra i figli, per il tramite del canale rappresentato dal capitale umano La trasmissione, inoltre, si farà più accentuate, se, come si ritiene sia avvenuto negli ultimi anni, il rendimento del capitale umano o, anche, il “premio” all’istruzione, cresce.
Le ricerche condotte con alcuni collaboratori (in particolare con Michele Raitano e Francesco Vona) portano a conclusioni che confermano solo in parte questa spiegazione. E’ confermato che vi è una forte correlazione, ovunque, tra reddito dei genitori e istruzione dei figli, ma non è confermato che le disuguaglianze di reddito da lavoro tra i figli dipendano esclusivamente dal loro capitale umano. I fattori della disuguaglianza nel mercato del lavoro sono anche altri e non sono sempre di facile individuazione. Sappiamo, però, che questi altri fattori in diversi paesi (tra i quali vi è l’Italia) dipendono anch’essi dal reddito familiare cosicché vi sono canali di trasmissione che non passano per il capitale umano e l’influenza familiare non si esaurisce con il completamento degli studi ma sembra manifestarsi ben oltre quel termine.
La questione è complessa e una spiegazione esauriente non è ancora disponibile. Tuttavia è certo che nel nostro paese le disuguaglianze si trasmettono anche attraverso canali diversi dall’istruzione e, tra le altre ipotesi, quella che appare più appropriata per spiegare questo fenomeno è che siano rilevanti le reti sociali di appartenenza. Queste reti svolgono un ruolo decisivo nel permettere, ad esempio, ai laureati figli di “ricchi” di ottenere un’occupazione e un reddito da lavoro migliori rispetto ai laureati figli di “poveri”. Ciò significa che quelle reti non servono tanto o soltanto a facilitare l’incontro tra domanda e offerta di lavoro, come usualmente si assume; esse servono anche a permettere “privilegi” che non sembrano giustificabili in termini di altre abilità dei “privilegiati”. Questo avviene nei mercati e non soltanto, come sarebbe più facile immaginare, nei circuiti politici. Dunque, anche il funzionamento dei mercati è responsabile di questa situazione e, per conseguenza, proporsi di livellare le opportunità alla partenza (ad esempio con la strategia suggerita da Blair: education, education, education) non assicura una bassa trasmissione intergenerazionale della disuguaglianza e una elevata mobilità relativa. Il punto meriterebbe un maggiore approfondimento, ma mi permetto di rinviare chi fosse interessato al mio Disuguaglianze inaccettabili (Laterza 2013), e cerco di trarre qualche conclusione da quanto ho sin qui detto.
L’obiettivo della mobilità sociale, intesa come mobilità relativa e, quindi, come bassa trasmissione intergenerazionale dei redditi è un obiettivo importante, soprattutto se opportunamente definito. Sarebbe, però, errato pensare di poter realizzare questo obiettivo senza intervenire sulla disuguaglianze correnti. Anzitutto non è facile eliminare le disuguaglianze nell’istruzione dei figli senza attenuare le disuguaglianze nei redditi dei padri. Inoltre, e specialmente , le disuguaglianze familiari si trasmettono ai figli anche per altri canali. Questi altri canali (che sono particolarmente inaccettabili come fattori di disuguaglianza), , sono molto importanti in alcuni paesi, tra i quali il nostro.
L’eventuale eguaglianza nelle opportunità intese essenzialmente come eguaglianza delle opportunità di accesso all’istruzione potrebbe fare ben poco per inaridire quei canali. Dunque, un intervento “mirato” sulle disuguaglianze correnti è necessario anche per realizzare l’obiettivo della mobilità sociale. E quell’intervento “mirato” non dovrebbe consistere soltanto in azioni redistributive; queste sono importanti ma, per le ragioni che ho indicato, occorrono anche interventi che correggano il funzionamento dei mercati così evitando che le reti sociali di appartenenza abbiano effetti di trasmissione intergenerazionale oltre che di distorsione nell’allocazione delle risorse, come quelle che consistono nel permettere agli avvantaggiati di occupare posizioni per le quali altri avrebbero superiori capacità. Non è, forse, sorprendente, tenendo conto della situazione in cui siamo, che realizzare questi obiettivi richieda interventi riformatori profondi, difficili ma possibili.
Ma anche questo, oltre che avere obiettivi chiari rispetto alla disuguaglianza, dovrebbe essere di interesse per una sinistra che voglia ripensare se stessa.