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Ripensare la cultura poltica della Sinistra

Una riflessione sulle idee-forza

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17 febbraio 2014

Reichlin introduzione

Di Alfredo Reichlin

Questo incontro nasce da una iniziativa di Salvatore Biasco: la lettera che anch’io ho ricevuto come tutti voi. Il problema che Salvatore ha posto, -detto semplicemente- mi sembra quello di reagire rispetto al  silenzio della sinistra. La quale è in un grande travaglio ma la crisi che la attraversa è tanto più grave perché sembra quasi aver rinunciato a una idea di sè e del suo ruolo. Non si vede un pensiero politico che abbia l’ambizione di leggere in modo autonomo le cose nuove del mondo. Ma non è  della contingenza politica che vogliamo parlare. Qui si vorrebbe riflettere sulla necessità di affermare una visione critica, tanto più necessaria in rapporto a cambiamenti che non sto a ricordare ma che si possono riassumere sotto il titolo di fine della occidentalizzazione del mondo. I quali  investono anche la nostra Italia la quale sembra arrivata davvero a un appuntamento col suo destino. La situazione è paradossale. Da un lato non regge più, è fallita l’idea che proclamava  la fine della storia  e di conseguenza l’accettazione di  un pensiero unico non più discutibile (il liberismo)  ma dall’altro lato permane un vuoto. Non  si vede un pensiero capace di dare alla politica una diversa  dimensione. Perché di questo si tratta. Insieme a tante cose, è la dimensione stessa dell’uomo che sta cambiando. Cambia il suo rapporto non solo con gli altri uomini oltre che con la natura. E quindi il problema che anche un uomo vecchio come me si pone non è il rimpianto del passato ma è quello di ridefinire una nuova soggettività. Cambiare non solo gli uffici-studi ma il modo di pensare la politica, e ciò anche in rapporto alla inaudita potenza di nuovi poteri globali. La questione  va molto al di là di questo incontro. Ma è importante lanciare un segnale, aprire una discussione. La crisi sta scavando una distanza enorme tra la gente e la politica, un fossato che può diventare incolmabile e travolgere la democrazia. Non si può non avere un orizzonte. Siamo a un difficile passaggio della Repubblica. E’ vano affrontarlo senza un punto di vista forte. E forte perché basato su una analisi meno superficiale  della realtà e dei suoi svolgimenti di fondo.

In ciò mi pare sta il senso del riferimento di Biasco al socialismo. Non è la confluenza del PD nella socialdemocrazia (che è un altro tema) ma l’idea secondo cui non basta che i filosofi ci spieghino il mondo, occorre un nuovo soggetto su cui far leva se vogliamo cambiarlo. Ed è ciò che in effetti fece il socialismo storico. Esso dominò il Novecento non solo perché predicò la giustizia sociale ma perché fece leva su strumenti e pensieri capaci di farla valere. Inventò strumenti molto potenti che non esistevano prima:  il  sindacato,  il partito di massa, il suffragio universale.  Impose al capitalismo un compromesso democratico. Il lavoro restava una merce ma una merce speciale: per comprarla occorreva che la plebe si trasformasse in cittadini, armati di diritti e leggi uguali. I quali diritti si materializzavano in una nuova forma di Stato. Un potere. Lo Stato sociale. Insomma un “profeta armato”. Ed è proprio questo il punto. Questo “profeta” è stato “disarmato” alla svolta degli anni ’70. Non solo in Italia. Non  scopro nulla. Lo ricordo per dire che  non è solo dalla pochezza degli uomini che viene la marginalizzazione del vecchio pensiero politico della sinistra quale era cresciuto nel vivo del vecchio conflitto operai-capitale. Ma ne occorreva uno nuovo all’altezza delle nuove sfide. Tanti l’hanno pensato ma come individui. La sinistra si è divisa. Una parte di essa non si è  nemmeno posto i problemi che Alain Tourane riassume così, in una sintesi estrema e forse  estremista: “tutte le categorie e le istituzioni sociali che ci aiutavano a pensare e costruire la società (Stato, nazione, democrazia, classe, famiglia)  sono diventate inutilizzabili. Erano figlie del capitalismo industriale. All’epoca del capitalismo finanziario non corrispondono più alla realtà delle cose”. Io non sono così drastico. Però anch’io credo che non abbiamo valutato in tutta la sua portata la cosidetta “rivoluzione conservatrice”. Non finiva solo un modello economico ma qualcosa di più lungo periodo. Ciò che Paolo Prodi chiama il  dualismo. Il necessario dualismo (cito le parole di Prodi) come “non coincidenza del potere politico con quello economico e come creazione di norme etiche e norme di diritto positivo, cioè di quel fattore che ha via via portato allo sviluppo dell’uomo moderno e quindi alla creazione dello Stato sociale” e all’economia del benessere. Questo che poi è stato un grande compromesso è finito. E’ stato un fatto storico. Reso possibile –ecco il punto- dall’esistenza di grandi “contenitori” (Stati, leggi, culture, nuova soggettività delle masse, sistemi) che garantivano un determinato rapporto tra politica ed economica. Gli “spiriti animali” dell’avidità si legittimano in quanto venivano costretti a misurarsi con nuovi diritti di cittadinanza, conquiste di libertà, diffusione del benessere, perfino con le spinte verso una certa equità sociale. Non pretendo di aggiungere nulla alle tante analisi. Mi chiedo però se misuriamo abbastanza gli effetti dell’enorme squilibrio che  si è creato non solo nella distribuzione della ricchezza ma nel rapporto di forza tra la potenza dell’oligarchia finanziaria globalizzata e la debolezza della politica localizzata. Il tutto in presenza di una rivoluzione scientifica che cambia le menti. Dunque quale pensiero critico autonomo della sinistra? Un pensiero non astratto ma capace di incarnarsi  in una vicenda reale.

E’ nella realtà che si ripropone una  nuova grandissima “questione sociale”, molto diversa da quella classica nata dal vecchio industrialismo. Essa non consiste più essenzialmente nella contrapposizione tra salario e profitto. E’ il valore del lavoro che è messo in discussione, è il fatto che il lavoro si possa affermare come il luogo della realizzazione di sé non solo come soggetto sociale ma anche come fondamento della cittadinanza che è in ballo. Perciò a me pare che il passaggio  da costruire è realizzare una condizione di autonomia e di superamento del lavoro come precariato, come residuo. E ciò in nome  della necessità di  creare una condizione umana segnata da una più forte conoscenza, responsabilità e partecipazione alle decisioni. Dovremmo  smetterla con la futile polemica tra Stato e mercato. Il mercato non cessa affatto di avere il suo ruolo. Ciò che gli sviluppi del mondo moderno rendono sempre più chiaro è che il mercato di per sé non è in grado di sovra determinare lo sviluppo degli altri sistemi sociali. Desideri, comportamenti e valori stimolati proprio dalle economie  post-industriali tendono a farsi valere e a condizionare a loro volta l’economia al punto da sovvertirne i meccanismi di funzionamento. E’ la cosa su cui aveva molto riflettuto Karl Polany. E’ diventato difficile perfino misurare con i parametri tradizionali il valore economico, il quale appare sempre più determinato dall’estensione delle reti e dalla velocità con cui esse consentono di scambiare idee, conoscenze e relazioni. E’ quindi venuto il momento  di assumere una visione più ampia di ciò che significa creare “valore” aggiunto dal momento che questo si ottiene sempre più integrando conoscenza e socialità, investimenti in beni collettivi e intraprendenza personale. La verità è che, così come è decrepita la vecchia contrapposizione cara ai “liberal” tra Stato e mercato è anche diventata meno significativa la vecchia contrapposizione “socialista” tra  profitto e salario. Lo sfruttamento è ben altra cosa: riguarda il lavoro ma  investe tutta la condizione umana: la vita, i modi di pensare, i territori.

Ecco perché direi (concludendo) che il problema che massimamente emerge è quello di guardare al di là delle cronache dei partiti per interpellare forze diverse, anche culturali, sulla necessità di pensare un nuovo pensiero. Una nuova soggettività. La capacità non solo di definire in astratto le grandi riforme che sono necessarie, ma il “con chi e contro chi” e anche il “come” farle. Astratte fantasie? Penso alla famosa osservazione di Antonio Gramsci relativa alla “concretezza”, cioè il ruolo che in un determinato scenario storico-sociale assume la presenza o l’assenza di un soggetto portatore di una critica della realtà e di un progetto di cambiamento. Riesca o no a realizzare appieno la sua proposta, -dice Gramsci- è l’esistenza stessa di questo punto di vista che fa parte del quadro e lo modifica.

Ecco . Io credo che la sinistra se vuole tornare a contare nel mondo nuovo deve porsi questo problema.

 

Intervento di Alfredo Reichlin

Roma, 7-8 novembre ‘013

 

 

Democrazia, socialdemocrazia e capitalismo, Relazioni

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